La Pagina di: Lucian Tarara

 

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Isbn 9788866151692

COME UNA NINFEA

Lucian Tarara, A5, pp. 428 Bross., anno 2018 € 20,00 Collana Nuovi autori n. 42

Lucian Tarara
È nato il 6 dicembre 1975 a Braila (Romania) sotto il regime di Ceausescu, del quale ricorda le condizioni di estrema povertà in cui ha ridotto il suo paese e che hanno influenzato la sua vita. Ha vissuto varie peripezie e avventure in Romania e fuori, fino ad arrivare in Italia nel 2005.
É attualmente nella casa di reclusione a Volterra dove frequenta con ottimi risultati l'ultimo anno dell'Istituto Tecnico per Geometri, e spera di continuare gli studi universitari.
Questo è il suo primo libro.

COME UNA NINFEA

 

DALLA PREFAZIONE DI FABIO CANESSA

Autobiografia spietata di una vita difficile, quello di Lucian Tarara è il racconto di un'esistenza sbagliata, aperto da un incipit in cui l'autore si presenta come un essere strisciante che non è mai riuscito ad alzarsi in piedi, quasi discendesse non da Adamo ma dal serpente tentatore simbolo del male, e chiuso da una lapide tombale di devastante amarezza. E si scusa con i lettori, dichiarando quanto gli sarebbe piaciuto scrivere «una storia piacevole d'una vita regolare», ma si appella alla «verità» dei fatti, così importante proprio quando, come nel suo caso, fa male.
Perché le lacrime, scrive Tarara, hanno radici molto più profonde di un sorriso e non è vero che il tempo cancella tutto, “là da qualche parte ben nascosto il ricordo rimane ben radicato nella mente”. Soprattutto nella sua. Lo dimostra la precisione analitica dei dati che la scrittura registra implacabile, con un'esattezza sorprendente, a distanza di tanti anni, a proposito di giorni, ore, minuti, gesti, fissati indelebilmente nella memoria, come sale che brucia le innumerevoli ferite di una via crucis senza fine.
Il Lucian di oggi racconta quello di ieri, senza volersi troppo bene né facendosi sconti, anzi. E anche se il primo sembra ormai molto diverso dal secondo, questo non basta certo a rimarginare le cicatrici inferte agli altri e a se stesso, piuttosto pare invece renderle immedicabili.
«Come sii fa a cambiare? Io non ho la più pallida idea», confessa in una delle rare aperture introspettive. Perché la scrittura di Tarara si limita a raccontare i nudi fatti, a ciglio asciutto, esente dal vittimismo e dalla ricerca di una facile compassione. Perfino il perdono gli sembra impossibile, forse addirittura immeritato o comunque assai improbabile. Si avverte solo qua e là lo sforzo di immaginare come sarebbe stata la sua vita se le cose fossero andate diversamente, insieme all'augurio che sia andata meglio a tanti compagni e compagne di strada da cui le vie del mondo lo hanno separato. Ma il passato non si può modificare e soltanto la letteratura può richiamarlo indietro per ripercorrerne tutti gli errori e i dolori, in nome della verità. Inutile credere che il nonno abbia perso un occhio lottando contro un branco di lupi: la realtà è che se lo era portato via con un filo di ferro.
La verità è sempre più misera della trasfigurazione eroica con cui vorremmo consolarci e la scrittura di Tarara non è certo consolatoria («non ho più voglia di raccontare quello che gli altri vogliono sentire»), piuttosto è un bisturi che incide i bubboni di una realtà violenta, come il coltello dei familiari sbudella il maiale in quella che i lettori giudicheranno una “festa barbarica”, ma che è soltanto la tradizione del popolo romeno. Pertanto ingiudicabile, esattamente quanto la festa barbarica della vita che ci viene raccontata. «La vita è questa e dobbiamo penderla così come è».
La potente narrazione di un'infanzia devastata da un padre manesco e ubriacone potrebbe fornirci, se non una giustificazione, almeno una spiegazione di quella «capacità di ferire le persone che non mi ha abbandonato durante la mia vita». Ma è un nesso che facciamo noi, non è certo Tarara a suggerirlo, tutt'altro: egli casomai cerca di comprendere perfino lo sciagurato genitore («alla fine era mio padre, persona grazie alla quale sono venuto al mondo») ed è pronto a concedergli quel perdono che sente invece negato a se stesso.
Se nella prima parte la storia del protagonista, pur infelicissima, segue un percorso originale che potrebbe potenzialmente svilupparsi in senso positivo e sciogliere i nodi dolorosi di un'adolescenza traumatica, per cui è più facile identificarsi con quel bambino e palpitare per lui, il seguito è un eterno ritorno di vicende sempre uguali (mutano solo luoghi e nomi) indirizzate non verso una catarsi o un riscatto, ma in un gorgo sempre più nero e senza via d'uscita. Per cui ne viene fuori un romanzo di formazione mancata («io penso di non essere maturato nemmeno adesso») con un protagonista che si ostina ad andare «sempre di corsa» contro se stesso. È sbagliato lui, visto che confessa «come durante la mia vita non abbia mai sentito la mancanza di qualcuno»? O è sbagliata la vita in sé? «Tutti sognano molto più in alto anche se la vita è al di là del sogno». Non sarà la vita a essere alla rovescia, come la città di Caracal, dove «il cimitero era sulla Strada della Resurrezione, il forno sulla Strada della Fame ed il carcere sulla Strada della Libertà»? In questo mondo al contrario pochi sono gli spiragli di tregua e serenità: le rive dell'amato Danubio, l'amore («un'opera d'arte, una cosa sacra,…un momento magico nel quale si può concepire una nuova vita»), la bellezza che però risulta «spaventosa», le relazioni umane (che possono essere sincere e affettuose anche in carcere) e la libertà, un bene che nessuna dittatura può cancellare del tutto («siamo liberi di pensare, di sperare, e neanche il più duro dei regimi può impedirti di farlo»).
Succede anche in galera: «nei primi giorni di privazione della libertà l'appetito sparisce e tiri avanti a forza di ricordi». Vale ancora di più per la letteratura: la libertà di scrivere, tirando avanti a forza di ricordi, innerva ogni pagina di questo libro. E non aspettatevi una scrittura caotica e febbrile come le vicende che racconta; al contrario, l'asciuttezza e la lucidità con cui la narrazione procede, archiviando in tono puntuale e quasi impassibile questa progressiva discesa agli inferi rendono la lettura ancora più cruda e allucinante. Perché è vero che «la vita non è quella cosa facile che ci insegnano a scuola», ma la scuola ha insegnato a Tarara a scoprire «il dono della scrittura». Aveva ragione la sua professoressa di letteratura a riconoscergli questo talento e a farlo scrivere «sempre di più». Se è servito a riversare in questo romanzo fluviale, che scorre come il suo Danubio, il groviglio di un'esistenza durissima, a esprimerlo con necessaria urgenza e a condividerlo con i lettori. Anche se non si è sciolto, è già liberatorio averlo trasferito in parole e avercene fatto sentire il peso.

Fabio Canessa.


 

 
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