ARTICOLO PER IL GIORNALE OTTOPAGINE IL QUOTIDIANO DELL'IRPINIA.  

 

Menesta asciatizza

DI Franca molinaro

Sono stata allevata da una zia, sorella di mio padre, che da giovane aveva seri problemi di vista, poi, con l’età, divenne totalmente cieca. Con lei imparai a leggere, le dicevo le lettere di cui era composta una parola e lei sillabava. Passavo con lei tutto il mio tempo e le tenevo compagnia, in campagna, anche quando studiavo. Lei mi accomodava su un fascio d’erba o di fieno e mi raccontava le sue conoscenze, oppure ascoltava la mia lezione mentre lavorava. A volte andavamo insieme in cerca di erbe e lei mi spiegava il metodo che usava per riconoscerle. La cicoria è pelosa e morbida al tatto, il piscialietto (tarassaco) è liscio e molto amaro se lo assaggi, la sperella è ispida, punge un po’ se la tocchi come pure la borragine ma quest’ultima è profumata se la stropicci, il cardusciello (crespigno) è spinuloso e se lo rompi esce un po’ di lattice mentre i lattughielli (lattuga) ne hanno di più ed è amaro. Di ogni erba saggiava la consistenza col tatto e ne ascoltava l’odore col naso, se non era convinta l’assaggiava. Quando rientravamo si faceva aiutare a mondare le verdure, mi raccomandava di togliere ‘mbroglie e pampene vaste (impurità e foglie guaste), lei tagliava la radice ed eliminava le foglie basali delle rosette, io perfezionavo l’opera. Chiamava tutte le composite somiglianti all’aspraggine, con un solo nome, quello che usava mia nonna, le definiva sperelle, forse una storpiatura del nome italiano, diceva che una volta si usavano tutte per preparare la menesta sciatizza, poi col tempo il consumo si era focalizzato sulla cicoria e sul crespigno. Spesso mi faceva lavare le verdure e mi raccomandava di cambiare sette volte l’acqua per essere sicura di una pulizia totale. A volte raccoglievamo le cime tenere di vitalba e luppolo per farne gustose frittate o soffritti, altre volte raccoglievamo verdure che mescolava con i fagioli messi a cuocere di buon mattino in una pentola alta così, diceva non restano senza acqua mentre noi siamo fuori, li definiva: “o pranzo dì squirati” (il pranzo degli squilibrati) perchè non richiedeva grande impegno per prepararlo. Nella tarda primavera, quando le rape completavano la fioritura, raccoglievamo cime di senape, le chiamava lassene mentre chiamava rapesta il ravanello selvatico ma quest’ultimo si raccoglieva quando era ancora in rosetta basale. In estate allungavano i fusti della condrilla e della launea, lei chiamava entrambe col nome dialettale di colie e non era interessata al fatto che si trattava di due piante diverse, la prima ha foglie lineari, la seconda ellittiche, perchè gli apici dei fusti hanno lo stesso impiego e lo stesso sapore. Rosolava la parte tenera nell’olio poi la mescolava con formaggio e uova ed ecco pronto il secondo.

Un’attenzione particolare aveva per le aromatiche, la menta era sempre in giro per la cucina, profumava i peperoni sotto aceto, le frittate, le braciole di maiale, il coniglio, gli stufati. Ricordo quando prendeva ago e filo e, con la cotenna del maiale realizzava dei cuscinetti ripieni sempre di uova e formaggio profumato di menta. Qualche volta mi mandava ai margini del bosco a raccogliere il puleggio, poi lo rosolava nell’olio con l’aglio, qualche pomodoro e preparava un sugo profumatissimo, con quel sugo condiva le laine, a me non piaceva molto ma bisognava imparare a mangiare ogni cosa, quella era la regola. L’avventura più bella però, era la raccolta delle ortiche per il pastone dei tacchini. È da premettere che i tacchini sono animali molto delicati e quando sono piccoli hanno bisogno di cure particolari ed una attenta alimentazione, il pasto principale, quando non c’erano mangimi ed integratori, era una polenta di granone cotta insieme alle ortiche della specie dioica. Quest’ortica cresce lungo i corsi d’acqua a differenza della specie hurens, nitrofila che gradisce l’azoto in forma nitrica e cresce nei ruderali ricchi di sostanze azotate provenienti dagli escrementi degli animali. Andare ad ortiche era una vera avventura da esploratore, con una compagna di giochi ci spingevamo nel letto del torrente e osservavamo ammirate l’intrigo dei rovi, il verde lucido dei muschi, le meravigliose trombette del lichene d’Islanda. A volte davamo la caccia a rane e girini, li portavamo a casa in un barattolo pieno d’acqua e le mettevamo in una grande bacinella ma, puntualmente scappavano. Con mio padre, poi, andavo a raccogliere i getti primaverili degli arbusti del sottobosco, sanguinello, fusaggine, salice da ceste, ligustro, a primavera, li pulivamo delle foglie e realizzavamo cesti e canestri. Infine c’erano i giochi con i frutti dell’avena fatua, si lanciavano addosso alle ragazze ed ogni frutto attaccato al vestito era un fidanzato, vergognoso a quei tempi. Lo stelo della stessa pianta era usato per farne trombette gracchianti con lievi variazioni di suono, secondo il calibro, o per far ballare i chicchi d’uva a San Giovanni.

A voltarmi indietro scopro di aver trascorso tutta la vita in stretto contatto con la natura eppure, tutt’ora la osservo con gli occhi di un tempo. Allora era avventuroso inoltrarmi nel bosco della nostra masseria, oggi lo è percorrere i sentieri sconosciuti dell’Appennino, la meraviglia che suscita in me è sempre quella e spesso mi auguro di possedere sempre la capacità di stupirmi. Dopo tanti anni, però, è nato in me il desiderio di conoscere meglio ciò che ho sempre ammirato, è diventata indispensabile l’identificazione delle piante, la conoscenza delle loro proprietà. Ho imparato così a riconoscere le famiglie e piano piano i generi, a colpo d’occhio, osservandone l’habitus, il seme, la fioritura. Ho studiato la loro storia, gli usi che ne fanno altre etnie, ho cucinato, assaggiato e fatto assaggiare, infine, con la benedizione di due amici medici, il dottor Aldo Grieco ed il dottore Lorenzo Romito, ho messo tutto per iscritto corredando di foto delle piante e siti botanici. Soddisfatta e sicura che sul mercato non esistessero testi simili ho bussato alle porte di diverse case editrici locali ma i costi erano esosi perchè l’opera è a colori. Infine, sottoponendo il lavoro agli Editori de “La Bancarella”, in Toscana, ho avuto piena approvazione e consenso per la pubblicazione. Oggi il mio libro è venuto alla luce con, in copertina, una bellissima foto di Cairano visto dall’invaso di Conza, all’interno ha 216 foto a colori ed altre in bianco e nero, riporta le caratteristiche delle piante trattate, un po’ di storia e di tradizione, tante ricette sperimentate in cucina da chi scrive, reperite tra le anziane, conosciute personalmente, create da me nel corso degli anni, ispirate a qualche preparazione reperita su altri testi. Il mio intento era quello di consegnare ai posteri la mia esperienza pratica abbinata allo studio di questi ultimi anni sperando di suscitare interesse e rispetto verso la natura, non so se ci riuscirò ma la mia coscienza è serena, ci ho provato.

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